Carlo Abarth fu uno dei primi piccoli costruttori a produrre in “grande serie” vetture GT e Sport destinate esclusivamente alle competizioni, in pista o salita.
Negli anni 1967-68, in presenza di importanti cali di vendite delle vetture stradali derivate da modelli di serie, Abarth fece di necessità virtù e tornò praticamente alle origini, spingendo sulla progettazione, realizzazione e vendita di vetture espressamente concepite per la sola attività agonistica; la prima di queste vetture del nuovo corso fu la Sport Spyder 2000 biposto.
In quel periodo Abarth era ancora legato alla concezione del motore posteriore a sbalzo (o fuoribordo che dir si voglia), a ciò vincolato dall’utilizzo di pianali di vetture di grande serie, opportunamente alleggeriti e nel contempo rinforzati, la cui impostazione d’origine prevedeva appunto il gruppo motore-cambio in tale posizione.
La SE 010 nacque quindi come progetto di compromesso: pur mantenendo infatti la posizione a sbalzo, abbandonava il pianale in lamiera per passare al più leggero e rigido telaio tubolare a traliccio. In realtà tale tecnica era stata già adottata su altre precedenti sport dello Scorpione, ma la SE 010 – la prima con l’obbligo di rispettare una produzione minima di 25 esemplari per poter ottenere l’omologazione in Gruppo 4 – rappresentava la proiezione industriale di tale attività di nicchia.
A differenza della sua progenitrice SE 04/FB, la SE 010 veniva costruita “annegando” alcune parti del telaio tubolare in pannelli di vetroresina. Si otteneva così – senza penalizzare più di tanto il peso complessivo – un consistente aumento della rigidità torsionale a tutto vantaggio di prontezza, guidabilità e tenuta. Altre peculiarità del progetto, che nonostante il motore a sbalzo tendeva a portare quante più masse possibile verso il centro vettura, fu lo spostamento della frizione multi disco a secco in testa alla scatola del cambio; sempre per tale motivo una serie di organi accessori vennero spostati verso il centro, in zona cambio, e lo stesso motore benché a sbalzo era spostato verso il centro in maniera talmente marcata che i semiassi, visti in pianta, risultavano inclinati verso l’indietro di circa 6 cm.
Interessanti gli schemi progettuali del telaio e la conseguente metodologia di montaggio: la posizione di ogni singolo elemento tubolare era studiata in modo che questo funzionasse a mò di tirante ovvero di puntone. I vantaggi di questo sistema erano la facilità di calcolo e la possibilità di verificare le caratteristiche di rigidità e robustezza già in fase di progetto. La metodologia di montaggio prevedeva l’utilizzo di una o più maschere in ghisa, sulle quali si ponevano i diversi componenti tubolari che, una volta assemblati, formavano dei sottogruppi a loro volta posti su maschere successive e saldati fra loro: in questo modo il telaio prendeva, fase dopo fase, forma con precisione millimetrica.
Una volta terminato l’assemblaggio il telaio veniva posto su un una dima metallica attorno alla quale combaciavano altre quattro dime che allineavano, perfettamente in squadra, le sospensioni i cui fazzoletti e le cui staffe venivano a loro volta saldate al telaio. Il telaio veniva poi completato saldando tutte le staffe ed i supporti degli accessori nonché i punti di attacco di motore e cambio.
Poiché in quegli anni la fibra di carbonio e la cottura in autoclave erano ancora “nella mente degli Dei”, per la costruzione dei pannelli di irrigidimento e per la carrozzeria, veniva utilizzata fibra di vetro imbevuta di resina. Così gli addetti alla vestizione del telaio ritagliavano a misura i pannelli di fibra utilizzando dei modelli simili a quelli da sartoria. Questi pannelli venivano fissati in punti prestabiliti del telaio e fissati con strisce e nastri di fibra che venivano poi impregnati di resina (tempo di essiccazione circa 6 ore); terminata la polimerizzazione il telaio nudo completo, che pesava complessivamente 47 kg (38 di traliccio più 9 di vetroresina) veniva verniciato, forato in punti prestabiliti e poi completato con tutti gli accessori necessari al montaggio delle singole componenti. Dal reparto stampi poi uscivano le varie parti di carrozzeria, sempre in vetroresina, pronte per il finissaggio e la verniciatura. Rimarchevole il posizionamento dei tre serbatoi del carburante (35 + 35 + 30 litri) che, per bilanciare il peso del pilota a sinistra, venivano posizionati sul lato destro del telaio. I pannelli della carrozzeria erano composti, in funzione dell’ottenimento della massima leggerezza e rigidità, da uno strato di tessuto di fibra di vetro accoppiato ad uno strato di feltro, anch’esso imbevuto di resina, per uno spessore massimo totale, a polimerizzazione conclusa, variabile fra 1 ed 1,5 mm. Laddove serviva ulteriore rigidità, venivano utilizzati inserti di leggerissimo legno di balsa; il peso totale della carrozzeria, completa di fari e parabrezza, si aggirava sui 50 Kg.
Altra caratteristica di questa vettura erano i 4 radiatori sdoppiati: due dell’acqua, posti anteriormente e due dell’olio – ai lati dell’abitacolo – raffreddati dalle due grandi prese d’aria laterali che divennero il segno distintivo del modello. Queste ultime, come le prese d’aria anteriori, ospitavano anche le prese d’aria dei freni. L’esperienza in pista suggerì di dare maggior carico aerodinamico al retrotreno e per tale ragione si modificò il profilo dei parafanghi posteriori alle cui estremità vennero aggiunti due profili che divennero ulteriori segni distintivi della vettura. Nelle ultime versioni scomparvero i caratteristici gruppi ottici rettangolari anteriori e comparvero, in diverse fogge, delle alette posteriori verticali, sorta di piccoli “timoni”, destinate a stabilizzare la vettura alle alte velocità. L’auto con il rapporto al ponte 10/35 raggiungeva i 270 km/h grazie ai 250 CV (260 nelle ultime versioni) erogati dal suo 4 cilindri due litri a doppia accensione alimentato da due carburatori Weber DCO3 da 58.e capace di 8.700 giri/minuto. Il motore era un superquadro con un alesaggio da 88 mm.(corsa 80 mm), rapporto di compressione 11,5:, 4 valvole per cilindro e doppia accensione con doppia bobina;
Telaio a traliccio in tubi di acciaio al cromo-molibdeno tipo 25CD4 e carrozzeria in vetroresina, cerchi anteriori 4,45/10/13 6.00/12×13 posteriori, di soli 97 cm era l’altezza da terra, 3,85 metri la lunghezza massima mentre la larghezza arrivava a 1,78 metri, il tutto per 575 kg di peso a vuoto, esattamente il peso minimo regolamentare. La distribuzione dei pesi, con pilota a bordo, era del 38% all’avantreno e del 62% sull’asse posteriore. Cambio a 5 marce con rapporto finale al ponte 10/35 (altri a richiesta), sospensioni anteriori e posteriori con molle a elica, ammortizzatori telescopici e barre stabilizzatrici. Anteriori a trapezi oscillanti e posteriori a bracci oscillanti. Questo modello, considerando il suo esclusivo utilizzo agonistico, fu decisamente longevo: entrato in produzione nel 1968, ne uscì nel 1971, dopo 4 anni ed altrettante evoluzioni.
Fonte: Omniauto.it